C’è una chiesa a Palermo, nel quartiere della Kalsa, risalente al sedicesimo secolo, adibita ieri e oggi a sede di spettacoli pubblici, che venne però utilizzata anche come lazzaretto per gli ammalati, durante un’epidemia di peste a fine ‘500. Accolse temporaneamente il celebre dipinto Spasimo di Sicilia, di Raffaello Sanzio, e ciò le diede il nome a noi oggi conosciuto: Santa Maria dello Spasimo.
Oggi lo Spasimo è una chiesa spoglia, un valido esempio di architettura tardo-gotica, sconsacrata, utilizzata per spettacoli di vario genere… e per tetto un cielo di stelle (citando un vecchio western).
La volta della Chiesa crollò nel corso del ‘700 e non fu più ricostruita, rendendola uno dei luoghi più suggestivi di Palermo.
Ciò che la parola spasimo vuole intendere in riferimento all’opera di Raffaello e alla Chiesa stessa è senz’altro l’accezione di sofferenza, in quanto entrambe sono dedicate alla Madonna che soffre dinanzi al Cristo in croce.
Alessandro D’Avenia, nel suo libro Ciò che inferno non è, parla di Spasimo come voglia incessante di infinito, forte desiderio di vita, qualcosa che forse si avvicina all’idea decadente di Spleen. Un sentimento che innegabilmente tutti proviamo osservando quella linea lontana e immaginaria che unisce cielo e mare, quando la brezza invernale soffia contro il nostro viso ma al contempo sembra chiamarci a sé, una forza che ci attrae come il canto delle sirene che attirava i marinai; ma noi, come Ulisse, resistiamo, legati alla nostra città dall’amore incondizionato per lei.
Entrando in quella chiesa, nonostante io sappia benissimo come sia fatto il cielo, nonostante io l’abbia sempre avuto sopra la testa, non posso fare a meno di alzare gli occhi, svuotare la mente e lasciare che il cuore spasimi. Perché quel pezzo di cielo incorniciato da quelle antiche mura è comunque infinito, pronto ad accogliere i miei infiniti universi immaginari.
Un posto così, un cielo così, non può che chiamarsi Spasimo, e non può che farmi innamorare.
Copyright foto: Massimo Acquaviva